Controstoria del
Risorgimento: Sintesi Bibliografica Ragionata di Ignazio Burgio.
(tratto dal sito dell’Autore CATANIACULTURA)
Da
una quindicina di anni a questa parte sono stati pubblicati diversi volumi che
analizzano il Risorgimento e l'Unità d'Italia senza alcuna mistificazione ma
nella loro drammatica verità storica. Si è ritenuto utile proporre una sintesi
di quanto ricostruito dagli autori di queste opere (insieme ad
un elenco di riferimenti bibliografici, tutt'altro che esauriente, ovviamente)
lasciando che prevalentemente si esprimano essi stessi. La finalità è quella di mostrare che una serena lettura della verità dei
fatti ed un pacato dibattito privo di toni polemici siano di grande vantaggio
alla maturazione civile e democratica di ognuno di noi, fino, forse
paradossalmente, a dare maggior valore oggi che nel passato all'unità della
nostra nazione.
«La pronipote dell'eroe dei due mondi Ana Maria de
Jesus, figlia di Ricciotti
Garibaldi e di Costanza, sostiene che in famiglia la spiegavano così: "Il
bisnonno e il re si incontrarono a Vairano.
Il bisnonno a Teano non ci è andato proprio, nemmeno a dormire. Aveva passato
la notte alla taverna Catena di Vairano, si era
alzato presto e, invece di partire, aveva deciso di aspettare Vittorio
Emanuele. Quando arrivò, il bisnonno non scese da cavallo e gli disse: “Maestà,
vi porto l'Italia”. Per la verità lo disse in francese perchè
lui era di Nizza e nel regno sabaudo l'italiano era
poco comune. Dunque: “Majestè,
je vous remets
l'Italie”. Insieme si diressero verso sud" ....». Col racconto sulla verità circa il presunto e
mitizzato incontro a Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, il piemontese
Lorenzo Del Boca a pag. 8
del suo ormai classico volume Maledetti Savoia (Piemme, 1998), comincia
ad elencare i falsi episodi, i luoghi comuni, le leggende costruite dall'iconografia
ufficiale circa la storia del Risorgimento italiano come viene ancora oggi
studiata da scolari e studenti sui testi scolastici. Nel medesimo volume si
scopre così ad esempio, come il Regno Borbonico delle Due Sicilie
non fosse affatto arretrato e sottosviluppato come la
propaganda successiva all'unificazione volle dipingerlo. Scrive sempre Del Boca (forse con qualche punta polemica di troppo): «...Il Meridione riceveva gli ospiti in saloni arricchiti da
arazzi, serviva vini pregiati in cristallerie delicate, proponeva tavole
imbandite con pizzi e vasellame di Capodimonte. A
Torino usavano ancora i piatti di legno. Il Sud conservava la raffinatezza
culturale greca e araba e l'Università di Filosofia - fra docenti e studenti -
poteva annoverare il meglio dell'”intelligentia” del
tempo. Al Nord parlavano un dialetto venuto dai barbari d'oltralpe. Nelle
province napoletane si lavorava il ferro, la ceramica,
i filati. Le fabbriche di Pietrarsa e l'Opificio
Reale rappresentavano il maggior complesso siderurgico dell'Europa del sud, in
grado di reggere la concorrenza con Austria e Prussia. Erano dotati di un
motore a vapore capace di sprigionare energia per 160 cavalli. Ci lavoravano
1000 operai e altri 7000 vivevano dei manufatti dell'indotto. La fonderia Orotea di Palermo, di proprietà della famiglia Florio, era conosciuta nel mondo per i prodotti di
precisione e impegnava 600 operai. Venne poi
smantellata per lasciare spazio all'Ansaldo di Genova. Il mercato tessile era
saldamente in mano al Meridione. Lo stabilimento di Piedimonte
d'Alife, dello svizzero Egg
contava 1300 operai 36 filatoi e 500 telai. La maggiore filanda del Nord, la
Conti di Milano, impiegava 415 operai.
“ll sud aveva costruito le industrie di Scafati di Mayer e Zollinger,
quella di Pallenzano e quella di Salerno. A San Leucio, su 80 ettari di terreno,
sorse la più imponente seteria di quei tempi. Il gruppo industriale Guppy, con il socio d'affari Pattison,
avviò un'azienda a Napoli per la costruzione di macchine agricole e locomotive
a vapore: trovarono posto 1200 dipendenti. Cinquecento metalmeccanici operavano
nella Real Fonderia di Castelnuovo,
altrettanti nella Reale Manifattura di armi a Torre Annunziata.
“Il cantiere navale di Castellammare era una piccola città di
2000 impiegati. D'altra parte la flotta del regno delle due Sicilie contava 40.000 uomini di equipaggio. le aziende
calabresi a Mongiana, a Cardinale, a Monteleone e a Catanzaro, quelle di Matera, Palermo e
Catania esportavano in Brasile e negli Stati Uniti.
Il Napoletano era di gran lunga la regione italiana
più industrializzata. Il censimento, promosso in occasione dell'Unità d'Italia le accreditò un milione e 189.000 operai pari al 37
per cento degli attivi, contro i 345.000 del Piemonte che rappresentavano il 17
per cento...» (Maledetti Savoia, p. 234-235).
Anche per Giuseppe Ressa in Il sud e l'Unità d'Italia (2003, liberamente
scaricabile, vedi bibliografia) «la regione
Calabria annoverava, insieme ad altri stabilimenti siderurgici minori:
industrie tessili con 11 mila telai complessivi (solo quella della seta
impiegava tremila persone), estrattive (sale a Lungro
con più di mille operai, liquirizia, tannino dal castagno), industria
manifatturiera (cappelli, pelletteria, mobili, saponi, oggettistica in metallo,
fino ai fiori artificiali), distillerie di vino e frutta; tutto questo ne
faceva la seconda regione più industrializzata del Sud dopo la Campania...
"Il Meridione possedeva una flotta mercantile pari ai
4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo, ne facevano parte più di
9800 bastimenti per oltre 250mila tonnellate ed un centinaio di queste navi
(incluse le militari) erano a vapore. Erano attivi circa quaranta cantieri di
una certa rilevanza e “tanto prosperò il commercio in 30
anni, che nel 1856 solo a Napoli vi erano 25 Compagnie di trasporto, che
capitalizzavano oltre 20 milioni di ducati”. Allo scopo di favorire il
commercio, furono stipulati, dai re meridionali, numerosi trattati commerciali
con tutte le principali potenze.
"Il primo mezzo navale a vapore del Mediterraneo (una goletta) fu
costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al
mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il
Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli, fu varato il 24 giugno del 1818...»
(pp. 141-143). Se è vero che la situazione scolastica nel Regno delle Due Sicilie era carente, con solo il 10 per cento di
alfabetizzati (il dato peggiore nell'Italia pre-unitaria), e gli intellettuali
(specie gli studenti universitari) erano sotto il controllo della polizia, lo
stato borbonico era all'avanguardia nel campo del sistema previdenziale e pensionistico (introdotto nel 1813) nonché per
l'organizzazione medica e ospedaliera, con 22 grandi ospedali in tutta la
nazione e con il tasso più basso di mortalità infantile in Italia. (Il sud e l'Unità d'Italia, p. 166).
Contrarie a qualsiasi stereotipo sono poi i retroscena relativi
ai veri motivi all'origine della spedizione garibaldina che sempre
Lorenzo Del Boca trae dalle ricerche dello storico
inglese Raleigh Trevelyan: «...La Gran Bretagna
voleva giocare un ruolo di primo piano nelle questioni internazionali e vedeva
con sospetto l'amicizia troppo forte che legava Francia e Piemonte.
Contemporaneamente i diplomatici inglesi segnalavano con preoccupata
apprensione l'avvicinamento dei Borboni all'impero
russo che cercava una sbocco marittimo sul
Mediterraneo. Aiutare il Piemonte a prendersi il Sud dell'Italia avrebbe avuto,
per Londra, due risultati positivi. Innanzitutto si sarebbe accreditata a
Torino come alleata affidabile almeno quanto i francesi, togliendo loro
un'egemonia psicologica e politica su quello staterello
governato dai Savoia. Poi avrebbero levato di mezzo un regno che poteva offrire
i suoi porti ai concorrenti dell'Europa dell'Est. Le coste meridionali
d'Italia, in vista dell'apertura del canale di Suez,
sarebbero diventate un punto di riferimento importante delle rotte via mare e,
quindi, un attracco strategico per i commerci. Da ultimo gli Inglesi sentivano
la necessità di garantire le immense proprietà immobiliare e finanziarie che
avevano acquistato e investito in Sicilia... Fra le imprese che gli industriali
di Londra gestivano con profitto in Sicilia c'era
quella dell'estrazione dello zolfo. Almeno metà della produzione di questo
minerale prendeva il mare diretto in Inghilterra. Il resto era destinato a
Francia, Olanda, Russia e stati Uniti. Attorno a questi accordi nel 1838,
esplose una questione dai contorni allarmanti. Il Re
di Napoli, Ferdinando II, ruppe le intese passate e concesse alla compagnia Taix e Aycard, francesi di
Marsiglia una serie di agevolazioni tali da affidare loro una specie di
monopolio nel settore. Gli inglesi si trovarono, in qualche modo,
espropriati... Gli industriali danneggiati si
rivolsero al tribunale per un risarcimento colossale, ma non riuscirono a
convincere i giudici della bontà dei loro argomenti e persero la causa. Il
governo di Londra a quel punto (aprile 1840) scelse l'azione di forza e decise
di assediare i porti siciliani, bloccando le navi con bandiera borbonica. Il re
di Napoli mobilitò 12.000 soldati minacciando rappresaglie terribili nei
confronti dei possedimenti inglesi. La guerra commerciale fu a un passo dal
trasformarsi in guerra vera e soltanto l'intervento degli stati della Santa
Alleanza (Russia, Austria e Prussia) impedì una degenerazione della contesa. Il
21 luglio 1840 venne raggiunto un accordo che,
praticamente, ripristinava le condizioni economiche di due anni prima.
L'amicizia e la fiducia, però, erano del tutto compromesse. Inutile tentare di
rabberciarle. Nessuno, per la verità, nemmeno fra diplomatici avvezzi a
transazioni apparentemente disperate, tentò di chiedere ai contraenti
dell'accordo un gesto formale di reciproca stima. La decisione degli Inglesi di
scaricare il Borbone ebbe, in quegli episodi sulla contesa dello zolfo, una
conferma decisiva. Si trattò di organizzarsi opportunamente e poi attendere
l'occasione più propizia... » (Maledetti Savoia,
pp. 62-65).
L'attenta studiosa Angela Pellicciari in diversi volumi quali Risorgimento anticattolico
(Piemme 2004), I panni sporchi dei Mille (Liberal,
2003), L'altro Risorgimento (Piemme 2000) e Risorgimento da
riscrivere (Ares, 1998), aggiunge un'altra motivazione soltanto accennata
da altri autori, ovvero l'avversione dell'Inghilterra anglicana e protestante
contro la sudditanza psicologica e culturale da parte degli italiani nei
confronti della Chiesa Cattolica. Motivazione sostenuta anche da Elena
Bianchini Braglia in Risorgimento. Le radici della vergogna. Psicanalisi
dell’Italia (CSR Edizioni Terra e Identità, Reggio Emilia 2009) che riporta
anche le denunce dei Gesuiti nella loro rivista La Civiltà Cattolica. Fra il
1825 ed 1832 inoltre il governo Borbonico scatenò una
forte repressione contro le logge massoniche in Sicilia che turbò non solo i
massoni anglosassoni ma anche quelli italiani, fra cui Garibaldi, Mazzini e
Cavour. Quest'ultimo tuttavia, secondo Giuseppe Ressa aveva un motivo molto più
pratico e pressante per estendere la sovranità dei Savoia anche al ricco Regno
Borbonico, la medesima all'origine della Seconda Guerra d'Indipendenza, ovvero il dissesto finanziario del Regno di Sardegna ed il
concreto rischio di bancarotta: «Nella discussione del 9 febbraio 1859 il
marchese Costa di Beauregard denuncia: "Il Conte
di Cavour vuole la guerra e farà gli estremi sforzi per provocarla. Nella
pericolosa condizione in cui ci ha collocati la sua
politica, la guerra si presenta al suo pensiero come l’unico mezzo per
liberarsi onorevolmente dal debito spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere
agli impegni che ha preso", il bilancio del regno di Sardegna di
quell’anno "ha un deficit di 24 milioni di lire che porta il debito
pubblico complessivo ad un totale spaventoso di 750 milioni di lire" . Era
quindi sull’orlo della bancarotta sia a causa della bilancia commerciale, da
anni in passivo, sia soprattutto per la costosissima politica estera, in questa
situazione l’unica possibilità per evitare il tracollo finanziario era la
conquista di nuovi territori e come disse l’influente deputato sabaudo Boggio : "Ecco dunque il
bivio: o la guerra o la bancarotta".» (Il sud e
l'Unità d'Italia, p. 55).
L'occasione più propizia per tutti venne naturalmente dopo che nel 1859 la II
Guerra d'indipendenza fece guadagnare al Regno Sabaudo la Lombardia, l'Emilia e
la Toscana. Londra invitò caldamente Cavour a togliere di mezzo anche i Borboni e lo Stato Pontificio, ed anche Garibaldi da parte
sua all'inizio del 1860 era impaziente di tornare sul campo di battaglia per
distrarsi da una cocente delusione sentimentale: a gennaio di quell'anno infatti doveva convolare a nozze con la marchesa Giuseppina
Raimondi già da lui conosciuta più che intimamente ed
in attesa di un figlio. Ma in prossimità dell'altare a guastargli la festa gli era
arrivata la notizia che il padre del nascituro non era lui bensì un suo
luogotenente in camicia rossa: la sposina si beccò un'esclamazione poco
galante, una sedia ebbe l'onore di essere distrutta dall'eroe dei due mondi, e
la conquista del Sud avrebbe avuto anche il merito di salvare l'immagine
storica del Peppino nazionale (cfr. Maledetti
Savoia, cit. pp. 49-50).
Tutte le opere sin qui citate abbondano di dettagli storici, frutto di ricerche
su documenti d'archivio, diari, testimonianze poco note sui retroscena dietro le quinte della spedizione dei Mille: ovvero il ben
documentato coinvolgimento di Cavour e della monarchia sabauda, il fondamentale
sostegno, sia finanziario che in navi, uomini e mezzi da parte di Inghilterra
ed anche Stati Uniti, la ricerca di appoggi presso la malavita organizzata e la
costante opera di corruzione di generali e ufficiali borbonici come il
settantenne generale Francesco Landi «che nella
battaglia di Calatafimi, ad un passo dalla vittoria,
fece ritirare i suoi uomini. Lo storico De Sivo
sostiene che al generale avessero promesso una ricompensa di 14
mila ducati per la sua ritirata, somma depositata presso il Banco di Napoli.
Quando, però, si recò a riscuotere il frutto del tradimento, trovò soltanto 14 ducati». (Ricciardi
F., 1860: quei generali napoletani felloni e vigliacchi, 2009). «Morì l'anno successivo, nel 1862, ma i cinque
figli non ebbero problemi: tutti ufficiali superiori nell'esercito del Nord. A Calatafimi - luogo eroico del “qui o si fa l'Italia o si
muore” - furono uccisi trenta garibaldini. Non tutti per mano nemica." (Maledetti Savoia, cit. p. 74).
Anche sui fatti di Bronte, tra il luglio e l'agosto
del 1860, esiste una ricca documentazione su carta e in Internet. La fonte più
autorevole e dettagliata è l'opera del brontese e
testimone oculare Benedetto Radice le cui Memorie storiche di Bronte (1927) sono state riversate in rete a cura dell' "Associazione Bronte
Insieme" e liberamente consultabile nel sito dell'associazione. Vengono così ripercorse le vicende della cittadina, a quel
tempo “feudo” inglese dei discendenti di Orazio Nelson, dall'agitazione dei
nullatenenti per la mancata distribuzione delle terre secondo il proclama di
Garibaldi dittatore a Salemi, agli eccidi dei
possidenti e dei sostenitori della famiglia Nelson, fino all'intervento di Nino
Bixio, chiamato urgentemente dalle autorità inglesi
nell'isola, che una volta ristabilito l'ordine dopo un breve processo sommario
fa fucilare cinque brontesi fra i meno colpevoli di
tutti: tra essi un povero malato di mente e l'Avv. Nicola Lombardo,
rappresentante dei nullatenenti, che in realtà si era prodigato per tenere a
freno i suoi compaesani. C'è poi chi ha letto la severa e sbrigativa
repressione di Bronte anche come una clamorosa svolta
ideologica da parte dei generali garibaldini: «Fu il dramma di una parte
della sinistra impegnata a decidere in Sicilia il nodo dell’egemonia politica
del nuovo stato, ovvero se dovesse essere governato
dalla sinistra o dalla destra. Bixio a Bronte reprime i suoi stessi compagni: l’avvocato Lombardo
era dalla parte di Bixio»
ha scritto Giuseppe Giarrizzo (cit. da Gino Saitta). Senza scomodare Antonio Gramsci, la questione
storica di fondo è capire in che misura, nelle
originarie intenzioni di Garibaldi e Bixio (ammesso che
loro stessi lo sapessero), quella spedizione militare dovesse e potesse
rappresentare una guerra di classe: certamente dovevano infatti rendersi conto
che chi aveva organizzato e sostenuto quella spedizione (Cavour e
l'Inghilterra) non avrebbe consentito che a livello sociale le cose mutassero
più di tanto. A tal proposito un altro brontese ma
dei nostri giorni, Antonino Radice, che nel suo libro Risorgimento perduto
allarga la sua analisi ai protagonisti storici dell'unificazione, evidenzia
proprio come Cavour dichiarasse al parlamento subalpino «non
solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di
quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia
dell'Inghilterra. Il Cavour piemontese apparteneva alla ricca classe terriera e
nobiliare, della quale egli in fondo condivideva pensieri e umori. Per tali
motivi la sua mente era ben lontana dalla ipotesi di
rivolgimenti e di avanzamenti sociali apportatori di capovolgimenti di vita in
una regione come la Sicilia, e tale sua convinzione alimentava in misura
esasperata la diffidenza verso i propugnatori di cambiamenti di natura sociale
che da tempo erano invece desiderati dai siciliani» (Antonino Radice, Risorgimento
perduto, origini antiche del malessere nazionale, De Martinis
& C., Catania 1995. Recensione di Gino Saitta in:
www.bronteinsieme.it - contiene anche la citazione di Giarrizzo).
Una volta conquistata a cannonate anche la fortezza di Gaeta, ultimo rifugio di
Francesco II di Borbone, il 13 febbraio del 1861, cominciarono
realmente i guai per il Sud, e gli incalcolabili danni, a cominciare dalle
vittime militari e civili. Non soltanto Lorenzo del Boca e Giuseppe Ressa, ma anche ad esempio Gigi di Fiore
nel suo saggio I vinti del Risorgimento (Utet De Agostini, 2004) citano
i campi di prigionia del Nord, a cominciare da quello di San Maurizio del Canavese, ove vennero rinchiuse le decine di migliaia di
prigionieri, soprattutto soldati borbonici ma anche dello Stato Pontificio
sconfitti, una volta completata l'unificazione. Riporta Del Boca:
«I prigionieri aumentavano di numero in modo
esponenziale. Il generale Manfredo Fanti scrisse a Cavour per chiedergli di
noleggiare all'estero dei vapori perchè c'erano
40.000 prigionieri da spedire al Nord e la Marina non era in grado di fare da
sola. Fu necessario attrezzare altri campi: uno poco distante da San Benigno Canavese, un altro ad Alessandria e un
altro ancora a Fenestrelle, all'imbocco della Val Chisone che, dai tempi
antichi, era stata fortificata con un sistema di caserme appollaiate come nidi
d'aquila a 1.200 metri per resistere a possibili invasioni a opera dei
francesi. Per essere certi che lassù, accanto ai ghiacciai, la vita dei
prigionieri fosse davvero dura, i piemontesi si preoccuparono di strappare le
finestre dei dormitori.» (Maledetti
Savoia, p. 145). Nelle opere citate vengono anche riportate alcune
testimonianze pubblicate sulla rivista La Civiltà Cattolica del 1861: «Per
vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e
in Lombardia, si ebbe ricorso a un spediente
crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli,
appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza
razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle
gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi
posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e
cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie,
eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le
ghiacciaie. E ciò perché fedeli al giuramento militare ed
al legittimo Re». (Il Sud e l'Unità d'Italia, p.
137).
Largo spazio da tutti gli autori viene poi dato
naturalmente anche alla reazione della popolazione del Sud Italia, etichettata
poi dalla storiografia ufficiale come semplice brigantaggio. Sempre secondo il
piemontese Del Boca «la
rudezza disumana dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità
delle popolazioni locali. Di conseguenza aumentò la durezza della repressione.
Il numero degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.
"I fuorilegge riuscirono a costituire 400 bande
agguerrite. Con un calcolo meticoloso Tarquinio Maiorino
ha potuto stabilire che contavano 80.702 combattenti. Almeno altrettanti coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie:
gli informatori, i vivandieri, gli agenti di collegamento, i conviventi, i
familiari e le amanti. I banditi godevano di
solidarietà diffusa fra la gente e, quando arrivavano nei paesi, era festa
grande.
"Molti vennero uccisi. Dalle zone di guerriglia
pochi riuscirono ad arrivare al carcere. Gli altri vennero
sterminati in massa. Quanti ? Michele Topa cita i
giornali stranieri che, in quegli stessi anni, tentarono un bilancio di questa
guerra nascosta e dimenticata. Risultò che, dal settembre 1860 all'agosto 1861
- poco meno di un anno solare - vi furono 8.968
fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri. Vennero
uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne. Le case
distrutte furono 918, sei paesi cancellati dalla carta geografica. Cifre
naturalmente provvisorie e ampiamente parziali per difetto.
"Con il ferro e con il fuoco distrussero Guardiaregia e Campochiaro nel
Molise; Pontelandolfo e Casalduni
nella provincia di Benevento...
"Forse esagerano gli storici che, leggendo il
Risorgimento in chiave borbonica, sostengono che il Meridione pagò l'Unità con
700.000 vittime. E probabilmente è un impeto di polemica quello che
porta Antonio Ciano a ipotizzare un milione di morti. Ma, certo, la parola “massacro”
non è né gratuita né esagerata.» (Maledetti
Savoia, pp. 156-158). Molti autori riportano anche soluzioni “estreme”
progettate, ma in realtà mai realizzate, per disfarsi
definitivamente dei “briganti” meridionali, come la proposta dell'allora Presidente
del Consiglio Luigi Menabrea nel 1868 di deportarli
in Patagonia, progetto poi non andato in porto per l'opposizione del governo
argentino.
«La visione dell’Unità come conquista
dell’Italia da parte dei piemontesi si è affermata anzitutto come stato d’animo.
Molti italiani, soprattutto nel Mezzogiorno, si sentirono
infatti “conquistati”, non unificati in una patria comune. Ai loro
occhi, prima Garibaldi e poi Vittorio Emanuele II apparvero come conquistatori
stranieri, nè più nè meno
di quelli che erano approdati nel corso dei secoli sulle spiagge del “bel
regno” di Sicilia. Mentre agli occhi degli italiani più politicizzati in senso
democratico e, anche, repubblicano, quale che fosse la regione d’Italia da cui
provenivano, il processo che aveva condotto all’Unità si configurava piuttosto
come una “conquista regia”, come il frutto di un’abile e spregiudicata politica
dinastica condotta nello stile e con i metodi dell’ ancien
régime, che la Rivoluzione dell’89 aveva reso per sempre improponibili»
afferma Girolamo Arnaldi in L’Italia e i suoi
invasori, (Laterza, 2002, pag. 179) ed in effetti la monarchia sabauda
anche formalmente fece ben poco per smentire tale impressione dal momento che
Vittorio Emanuele continuò a definirsi “II” per non far torto ai propri
antenati, la legislatura uscita dalle elezioni nazionali del 1861 venne
denominata l'ottava dopo le precedenti sette del Piemonte pre-unitario, e la
capitale rimase a Torino. Costituzione, leggi, istituzioni e sistema
finanziario del Regno sabaudo vennero poi estesi pari pari a tutto il resto d'Italia.
Il peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei residenti nel Sud,
specie delle classi più povere, conseguenza di una errata
politica agraria, fiscale ed economica da parte del neo-stato italiano nei
confronti del Mezzogiorno - origine della nota “questione meridionale” - viene
poi largamente documentato in cifre da molti autori che ne analizzano
dettagliatamente i diversi aspetti: l'ingrandimento dei latifondi con le terre
demaniali e della Chiesa, l'appesantimento delle imposte dirette e indirette
gravanti su proprietà e popolazione; il peso dei gravosi debiti del Piemonte
(ma anche ad es. della Toscana) scaricato sulle regioni finanziariamente in
attivo - Lombardia, Marche Umbria, e soprattutto le regioni del Sud - dopo
l'unificazione del bilancio e del debito pubblico; le industrie siderurgiche di
Mongiana in Calabria e Atina
(Frosinone) chiuse dopo pochi anni dall'unificazione; le industrie metalmeccaniche, tessili e della carta boicottate dal
governo di Torino che preferì assegnare commesse e appalti alle industrie del
nord; e via dicendo (cfr. Giuseppe Ressa, Il Sud e l'Unità d'Italia, pp. 176 -
192). Si riconferma insomma quanto già espresso dallo storico contemporaneo
Pasquale Villari nel 1868: «Il Risorgimento non portò affatto alcuna profonda trasformazione ... E
l'Italia nuova si trovò formata dagli stessi elementi di cui era composta
l'Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversi.» (P. Villari, Saggi di storia,
critica e politica, Firenze 1868), mentre anche sotto l'aspetto politico,
lo storico inglese Denis Mack Smith nella sua Storia
d'Italia 1861 - 1958 (Bari, 1959) si dimostra - in termini, ahimè, ancora
attuali - ancora più pessimista: «Il connubio Cavour-Rattazzi,
secondo lo Smith, inaugurò in Italia quel sistema di governo di coalizione che
ben presto diede luogo al trasformismo del Depretis e
al parlamentarismo del Giolitti. Il sistema fondato sul compromesso d'interessi
personali tra gli uomini più influenti di partiti avversi, eliminando il
controllo e la critica della opposizione, paralizzò la
lotta politica e la sostituì con gretti opportunismi di cricche, abilmente
mascherati col principio che l'interesse nazionale deve prevalere sugli
interessi dei gruppi. La vita parlamentare fu così ridotta a un coacervo di
uomini dalle idee più opposte, ma legati assieme da meschini interessi
contingenti.» (Carmelo Bonanno, L'età contemporanea nella critica storica, Liviana 1973, p. 40).
«Insomma, fra le righe di una storia ufficiale ne esiste un'altra
controcorrente che casa Savoia prima e il fascismo poi, per motivi diversi ma
alla fine convergenti, hanno concorso in modo determinante
a soffocare. “Mai parlare male di Garibaldi” ha significato mettere la
mordacchia alla libertà di indagine e a nascondere la
verità. Presentarono il Risorgimento come un tripudio di fanfare, bandiere,
fiori lanciati dai balconi, entusiasmi di piazza. Quei vent'anni abbondanti che
portarono all'Unità diventarono acriticamente
un'epopea e Rosario Romeo fu mal sopportato quando cominciò a sostenere che,
per l'Italia, furono assai più determinanti le beghe internazionali fra
Inghilterra e Francia» dice Lorenzo del Boca a
conclusione del suo volume Maledetti Savoia (pp. 250-251).
Recentemente il medesimo autore piemontese ha anche pubblicato un altro saggio,
Maledetti Savoia, Savoia benedetti: storia e controstoria
dell'Unità d'Italia (Piemme, 2010) scritto però stavolta insieme ad un interlocutore d'eccezione, ovvero il principe Emanuele
Filiberto di Savoia. Proprio quest'ultimo da un lato - riprendendo quanto già
lamentavano a suo tempo Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo (che definì l'Unità
d'Italia come "l'ultima invasione straniera") - riconosce in tutta
onestà la volontà espansionistica del Piemonte sin dalla Prima Guerra
d'Indipendenza («...Carlo Alberto, tuttavia,
proseguì la politica di Casa Savoia, tendente all’ingrandimento dei propri
domini e – malgrado i proclami – rifiutò di dare alla guerra un carattere
rivoluzionario e nazionale, nell’ottica di limitarsi all’annessione dell’Italia
del nord. A questo scopo fece naufragare le trattative per l’accordo militare e
fece votare ai governi provvisori del nord l’unione al Piemonte..» p. 36). Ma fa rilevare d'altro canto - prendendo
spunto dall'analisi delle “Cinque Giornate di Milano” del 1848 - come
all'origine della spinta unitaria vi fosse anche la
necessità per le forze economiche dell'epoca di superare i troppi angusti
confini degli staterelli tutelati dall'Austria, in
cui era suddiviso il Nord-Italia, al fine di
espandere in tempi relativamente brevi infrastrutture e traffici commerciali
(p. 28); in pratica le stesse conclusioni già raggiunte ad es. dallo storico
Roberto Cessi sin dal 1922 («Furono i bisogni di combattere il
proibizionismo regionale e interregionale, il particolarismo territoriale e il
regime di privilegio, che soffocavano l'aumento della produzione, a originare
gli ideali d'indipendenza, di libertà e di federalismo...» (Roberto Cessi, Aspetti economici della storia del
Risorgimento, in “Annuario dell'Istituto Superiore di Trieste, 1922-23).
Insomma «l'Italia sarebbe il risultato dell'espansione di quella rivoluzione
industriale che dall'Inghilterra si andava diffondendo nell'Europa continentale
e ne determinava non solo la trasformazione economica ma anche politica»
riassume Carmelo Bonanno, che riporta anche
l'interessante - e per certi versi ancora attuale -
contrasto ideologico tra un Cavour fieramente sabaudo contro i più progressisti
Mazzini e Garibaldi, il quale ultimo era favorevole a concedere
un'amministrazione decentrata al Meridione: «come si potevano concedere le
autonomie regionali quando gli spiriti più onesti e intelligenti meridionali
avvertivano il Cavour che nel Sud esse erano volute soprattutto dai cosiddetti
'galantuomini' per poter continuare a sfruttare ignobilmente quelle povere e
disgraziate popolazioni ? Come si poteva concedere il diritto di voto a tutti, 'oves et
boves', quando si sapeva che l'analfabetismo in
alcune regioni raggiungeva il 90 % e la corruzione era spaventosa ? C'erano in
Italia forze storiche profonde, tenaci e opposte di cui si doveva tener conto.» (Carmelo Bonanno,
L'età contemporanea nella critica storica, Liviana
1973, p. 41). Dunque una necessità dovuta a precise realtà sociali insieme ad una finalità di lenta maturazione culturale e democratica
vi sarebbero state anche dietro i pesanti e drammatici sacrifici
dell'unificazione e delle rigide scelte di governo post-unitarie, secondo anche
l'interpretazione di studiosi quali il Bulferetti ed
il Sereni. Ma vere o false che fossero, in ogni caso agli occhi di noi italiani
del XXI secolo sono ragioni che non riescono più ad
essere comprese: per ciascuno di noi, il significato della Storia - possiamo
esserne consapevoli o meno - è la condanna dei drammi e delle ingiustizie del
passato, e quanto poteva anche essere accettabile dalle generazioni precedenti,
non lo diviene più per quelle successive. A tal fine la conoscenza dei veri
fatti storici può e deve fornire utile materia di giudizio ai contemporanei e
dunque divenire fonte di crescita e maturazione democratica. Del resto una
nazione che non conosce la verità sulle proprie origini rimane ancora più
vulnerabile agli inganni della falsa politica - come insegnano gli ultimi cento
anni di storia italiana !
In definitiva dunque una lettura obiettiva e non polemica della verità dei
fatti ed un pacato dibattito possono condurre tutti
noi italiani, oltre ad evitare di ricadere negli errori ed orrori del passato -
fondamentale missione della vera storiografia ! - anche a considerare quanto di
buono e vantaggioso possa trovarsi nell'unità della nostra nazione, in bilico
oggi come non mai tra le insidie della globalizzazione ed i particolarismi
regionali da “stra-provincia”, tra elites di
squattrinati intellettuali e miliardari arroganti e incolti, tra frivoli e
dispendiosi eventi (reali e mediatici) di bassa cultura, e sconsiderati tagli
alla scuola, ricerca ed istituti culturali. Una utilissima
occasione di riflessione dunque per rendersi conto da un lato che se l'Italia
fosse divisa sarebbe - economicamente, socialmente e politicamente - un danno
per tutti, e dall'altro che una vera unità non può essere soltanto politica e
amministrativa, ma in primo luogo anche economica, sociale, e culturale: senza
alcun genere di squilibrio tra le diverse aree geografiche.
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Elenco
dei volumi citati:
Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme,
1998.
Giuseppe Ressa, Il sud e l'Unità d'Italia, 2003, liberamente scaricabile
dal sito: brigantino
- www.ilportaledelsud.org/unità-mille.htm
Angela Pellicciari, Risorgimento
anticattolico, Piemme 2004; I panni sporchi dei Mille, Liberal, 2003; L'altro Risorgimento, Piemme 2000; Risorgimento
da riscrivere, Ares, 1998.
Elena Bianchini Braglia, Risorgimento. Le radici della vergogna. Psicanalisi dell’Italia, CSR
Edizioni Terra e Identità, Reggio Emilia 2009.
Francesco Ricciardi, 1860: quei generali
napoletani felloni e vigliacchi, 2009, in: 1860: quei
generali napoletani felloni e vigliacchi
Benedetto Radice, Nino Bixio a Bronte
(dalle "Memorie storiche di Bronte")
(1927), in: www.bronteinsieme.it
Antonino Radice, Risorgimento perduto, origini antiche del
malessere nazionale, De Martinis & C.
Gino Saitta, Recensione di Risorgimento perduto,
cit. in: www.bronteinsieme.it
Gigi di Fiore, I vinti del Risorgimento, Utet De
Agostini, 2004.
Girolamo Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori,
Laterza, 2002.
Pasquale Villari, Saggi di
storia, critica e politica, Firenze 1868
Denis Mack Smith, Storia d'Italia 1861 - 1958,
Bari, 1959.
Carmelo Bonanno, L'età
contemporanea nella critica storica, Liviana 1973
Lorenzo Del Boca, Emanuele
Filiberto di Savoia, Maledetti Savoia, Savoia benedetti: storia e controstoria dell'Unità d'Italia, Piemme, 2010.
Roberto Cessi, Aspetti economici della storia del
Risorgimento, in “Annuario dell'Istituto Superiore di Trieste",
1922-23.