I MOTI CARBONARI (1820-21/1831)
di Enrico Galavotti
(tratto dal sito
dell’Autore HOMOLAICUS)
Il movimento rivoluzionario in
Italia era guidato dai Carbonari, che si erano diffusi nel Sud del paese sin
dall'epoca della dominazione francese. La società dei Carbonari era
un'organizzazione segreta e rigorosamente cospirativa. Negli anni della
restaurazione essa aveva costituito delle sezioni non soltanto nel Regno
Napoletano, ma anche nello Stato pontificio, in Piemonte e in Toscana, a Parma,
Modena e nel Lombardo-Veneto. Gli appartenenti a questa organizzazione
provenivano per lo più dalla borghesia, dalla nobiltà liberale e dagli
intellettuali progressisti. Il lato debole dei Carbonari era la chiusura delle
loro organizzazioni, l'assenza di legami solidi con le grandi masse popolari,
l'ignoranza del problema della terra.
Il profondo malcontento popolare
scoppiò nel 1820, quando giunsero in Italia le notizie sulla vittoria di alcuni
moti rivoluzionari borghesi in Spagna, che saranno poi repressi dalla Francia
nel '23. Nel luglio 1820 un reggimento al comando del generale Guglielmo Pepe
diede il segnale della rivolta, che trionfò rapidamente in tutto il Napoletano.
Re Ferdinando fu costretto a proclamare una Costituzione democratico-borghese
simile a quella spagnola.
Senonché i dirigenti della
rivoluzione napoletana, essendo borghesi, non capivano le necessità e le
aspirazioni del popolo, soprattutto quelle dei contadini, che costituivano
l'assoluta maggioranza della classe lavoratrice. Gli insorti non seppero
risolvere la questione agraria, cioè non ebbero il coraggio di distruggere il
latifondo, sottraendo così i contadini alle influenze del clero. Così
Ferdinando I, accortosi della debolezza interna della rivoluzione, si appella
alla Santa Alleanza, e nel febbraio 1821 l'esercito austriaco del Metternich
ristabilisce l'ordine.
Mentre il regno Napoletano era
occupato dalle truppe d'invasione, scoppia nel marzo 1821 la rivoluzione in
Piemonte, anch'essa guidata da esponenti della nobiltà liberale, dalla
borghesia e da ufficiali membri della Carboneria. I liberali piemontesi
speravano non nell'appoggio del popolo, ma in quello di uno dei rappresentanti
di Casa Savoia, Carlo Alberto. Il quale infatti dichiarò di unirsi alla
rivoluzione e annunciò la Costituzione. In realtà egli cercava di conciliare
gli interessi della sua dinastia con le speranze dei progressisti. Di qui il
suo atteggiamento ambiguo e la decisione di abbandonare la rivoluzione nel
momento decisivo. Nell'aprile 1821 i soldati austriaci restaurano il regime
assolutistico in Piemonte.
I
MOTI DEL 1831. MAZZINI E GIOBERTI
I moti rivoluzionari del 1831
furono stimolati dall'ascesa in Francia della Monarchia liberale di Luigi
Filippo d'Orleàns, che giurò fedeltà alla Costituzione e che proclamò il
principio del non-intervento. Ma, pur essendoci una partecipazione più attiva
della borghesia, anche i moti del '31 non riuscirono a modificare le condizioni
politiche italiane. Il motivo era lo stesso dei moti del '20-'21: l'incapacità
di attirare nella lotta rivoluzionaria le masse contadine, affrontando la
questione agraria. Tali moti si svilupparono soprattutto nei Ducati padani
(Modena, Parma, Bologna, Reggio) e nelle Romagne (Stato della chiesa). Furono
tutti duramente repressi. I carbonari vennero traditi dal duca di Modena,
Francesco IV d'Este. Vittima più illustre: Ciro Menotti.
Il pensiero di Giuseppe Mazzini
(1805-72). Col fallimento dei moti del '31 falliva anche la lotta
rivoluzionaria di tipo settario, cospirativo, ch'era rimasta estranea ai
movimenti di opinione pubblica non solo per l'inevitabile clandestinità
dell'organizzazione, ma anche per la voluta segretezza dei programmi politici.
Rifiutato questo metodo, Mazzini sottopose il proprio programma di rinnovamento
nazionale, democratico e repubblicano, al pubblico dibattito e ne fece uno
strumento di educazione popolare.
Mazzini era stato espulso
dall'Italia nel 1830, dopo aver fatto parte della Carboneria. Insieme ad altri
emigrati politici fondò a Marsiglia l'associazione della "Giovine
Italia", che si poneva come compito l'unificazione nazionale in una
repubblica indipendente e democratico-borghese, da realizzarsi con
un'insurrezione rivoluzionaria contro il dominio austriaco e il potere dispotico
dei principi dei vari Stati della penisola, in forza del quale nessuna
esperienza di libertà era possibile. Il programma, appoggiato dalle forze
progressiste della piccola e media borghesia e dagli intellettuali democratici,
rappresentava un passo avanti rispetto a quello dei carbonari, la maggior parte
dei quali non andava oltre la richiesta della monarchia costituzionale.
Tuttavia Mazzini non avanzò un
programma di profonde riforme sociali, la cui attuazione avrebbe potuto
migliorare le condizioni dei contadini, attirandoli nel movimento di
liberazione nazionale. Mazzini, in particolare, era contrario alla confisca dei
latifondi e alla loro assegnazione ai contadini. Non vedeva il popolo diviso in
classi sociali contrapposte e subordinava l'emancipazione socioeconomica al
riscatto politico e all'indipendenza nazionale. Il metodo dell'insurrezione
(che constava peraltro in una serie di complotti, ovvero in una guerra
ristretta per bande, diretta dall'estero e senza un vero coinvolgimento
popolare) doveva servire a liberare il popolo dalla servitù politica, mentre
per il riscatto dalla servitù sociale, Mazzini proponeva soluzioni
conciliatorie (fra le classi), moralistiche (prima di lottare per la giustizia
l'operaio dev'essere giusto), pedagogiche (con l'educazione, la persuasione
ragionata ognuno si convince dei propri torti).
Fra i sostenitori iniziali del
Mazzini si distinse Giuseppe Garibaldi (1807-82), il quale però, dopo essere
stato condannato a morte per aver partecipato a un complotto rivoluzionario
(1834), fu costretto a emigrare in America, dove fino al '48 combatté per
l'indipendenza delle repubbliche sudamericane. Invece gli intellettuali che si
opposero al Mazzini, elaborando una prospettiva sociale della rivoluzione,
furono Carlo Cattaneo (1801-69), Carlo Pisacane (1818-57), Giuseppe Ferrari e
Giuseppe Montanelli. Pisacane indicava nel possesso contadino della terra lo
sbocco sociale della rivoluzione nazionale. Cattaneo e Ferrari proponevano un
ordinamento statale repubblicano di tipo federale, che conciliasse l'unità
nazionale con l'autogoverno locale, unica alternativa veramente democratica
allo Stato unitario e accentrato.
Il fallimento delle prime
insurrezioni, indusse Mazzini a rivedere in parte la propria ideologia. Tra il
'37 e il '49, soggiornando in Inghilterra, maturò la condanna del sistema
economico capitalistico, che escludeva i lavoratori salariati dalla proprietà e
dalla gestione degli strumenti di produzione, ma si limitò ad elaborare un
progetto di "riordinamento del lavoro" fondato su basi
cooperativistiche, con esclusione di qualunque forma di lotta di classe (per le
libere associazioni dei ceti umili). L'idea dominante del Mazzini restava
quella dell'unità (mistica) di Popolo e Nazione.
Sul versante cattolico l'esponente
più significativo di questo periodo è Vincenzo Gioberti, il quale scopre nella
forza progressiva che muove la storia una più esplicita volontà divina, di cui
interprete è la chiesa. La storia d'Italia coincide, per lui, con la storia
della chiesa. Solo la chiesa avrebbe potuto, nel Risorgimento, saldare gli
italiani in un organismo nazionale unitario (federazione di stati, non ancora
uno stato unico). Il primato morale-civile degli italiani dipende, in ultima
istanza, dalla chiesa. Perché si realizzi tale progetto occorre, secondo
Gioberti:
Nel Primato morale e civile
degli italiani, Gioberti esalta il Medioevo e l'Impero romano, il diritto e
la religione, con le quali - a suo giudizio - abbiamo "civilizzato"
tutti i popoli barbari. Agli italiani, Gioberti riconosce un grande genio
inventore. Il destino politico dell'Italia sarebbe quello cosmopolitico di
governare il mondo: quando questo non le è stato permesso, il genio inventore
si è tutto dedicato alle arti, scienze e letteratura.
Altri aspetti da
sottolineare:
Perché i moti mazziniani fallirono
tutti?