“LEGGENDE DI PIETRA”: L'ENIGMA ANASAZI ED I REMOTI CONTATTI TRA ASIA
E AMERICA,
di Ignazio Burgio (www.CataniaCultura.com)
La “Piramide a nicchie” di Tajin presenta l'inconfondibile stile
delle altre piramidi asiatiche: anche se non molto alta - appena una ventina di
metri - tuttavia risulta finemente lavorata con la
riproduzione di 365 nicchie, dall'evidente significato astronomico, insieme ad
una scalinata sul suo lato rivolto verso est. A detta di studiosi come Pierre Honorè,
essa “...non solo nella parte inferiore della
costruzione, ma anche nelle decorazioni e nelle nicchie è identica alle pagode
della città morta birmana di Pagan...”. La cosa più
curiosa tuttavia è il fatto che questa piramide,
insieme alle rovine della città che la circonda, non si trova nè in Indocina nè in nessun altro
luogo dell'Asia, bensì nell'attuale Messico vicino la città di Poza Rica. Riportata alla luce
dalle spedizioni archeologiche guidate da Jose Garcia Payon,
tra il 1935 ed il 1963, Tajin
(“tuono”) fu la prima capitale dei Totonachi, un
fiero popolo mesoamericano che dopo essere
sopravvissuto per 1500 anni si arrese solo ai Conquistadores
spagnoli di Cortez. Oltre alla già citata piramide,
numerosi altri reperti rinvenuti all'interno della città richiamano gli stili
artistici asiatici: “...Lo stile ornamentale di Tajin, specie per quanto concerne i vasi, mostra una tale
somiglianza con il tardo stile Chu della Cina, da
rendere quasi impossibile distinguere l'uno dall'altro...” affermò sempre
Pierre Honorè.
Fra tutto quanto si è salvato dalla distruzione dei Conquistadores
spagnoli in America Latina, molti sono i reperti di ogni tipo che si
ricollegano all'arte delle civiltà asiatiche, come le piramidi ed i monumenti della città maya di Chichen
Itzà, quelle di Tikal,
identiche a quelle cambogiane di Angkor-Vat, ma anche
statue, gioielli (di giada, come quelli orientali), ornamenti e decorazioni
rinvenuti in Ecuador ed in Perù. Per non parlare di curiose analogie
scientifiche e culturali, come l'uso dello zero e del sistema decimale presso i
Maya che fino all'inizio del Medioevo si ritrovava solo in un altro luogo al
mondo, in India.
Il sospetto che in epoca remota possano esservi stati contatti - forse stretti
e regolari - fra le due opposte sponde dell'Oceano
Pacifico ha attraversato la mente di più di uno studioso, anche accademico. Nel
1961 su di un quotidiano di Pechino apparve un articolo firmato dallo storico
cinese Chen Hua-Hsin
il quale rivendicava ai navigatori del celeste Impero la scoperta dell'America
almeno mille anni prima di Colombo. Pur non sminuendo i meriti del grande
genovese, il docente d'oltre muraglia basava le sue affermazioni oltre che
sulle somiglianze artistiche che abbiamo già citato anche sulla cronaca di
viaggio di un antico cinese in un “paese buddista posto al di
là del mare” che Chen Hua-Hsin
identificava con il Messico. Più di un critico fece notare che il non meglio
identificato “paese buddista” con molta più verosimiglianza poteva essere
rappresentato dall'India. In ogni caso comunque non può essere negato che le
robuste navi cinesi già in epoca pre-cristiana erano in grado di affrontare
tranquillamente anche l'Oceano Indiano, e dunque
avrebbero anche potuto avere la possibilità di attraversare il Pacifico.
Alcuni studiosi - quali il già citato Honorè, Kolosimo,
ecc. - tuttavia si sono spinti addirittura ben oltre l'ipotesi - tutt'altro che
inverosimile - di contatti, occasionali o regolari, tra Asia e America in epoca
storica. Le forti analogie artistiche, culturali e scientifiche tra le due
sponde opposte del Pacifico non deriverebbero, secondo tali autori da viaggi
transoceanici in età storica, bensì sarebbero la comune eredità ricevuta da una
remota civiltà localizzata da qualche parte del grande oceano. Nonostante possa
generare scetticismo - soprattutto perchè collegata
alla leggendaria isola di Mu - anche questa ipotesi
non dovrebbe essere scartata “a priori”, in forza dei tanti indizi relativi ad una remota antichità di rovine, tradizioni culturali,
sofisticate conoscenze, e non ultimo anche di etnie che sembrerebbero quasi
“fuori posto”.
In tantissimi miti del mondo pre-colombiano si parla di divinità e sovrani di
pelle bianca, dotati anche di una folta barba. Numerose statue e bassorilievi raffiguranti
questi personaggi dai nomi mitici - Quetzacoatl, Virakocha, Kon-Tiki - sono stati
rinvenuti tra il Messico ed il Perù. Indios di pelle
chiara addirittura - secondo alcune testimonianze - sarebbero
stati avvistati nel secolo scorso nel folto della foresta amazzonica.
Sembrerebbero elementi assurdi e contraddittori data
la preponderanza pressochè totale da parecchi
millenni del genotipo e fenotipo mongolo, tanto in Estremo Oriente quanto in
America, prima dell'arrivo degli Europei. Non bisogna dimenticare tuttavia che da tempo immemorabile in un angolo dell'Asia è sempre
esistito un gruppo umano di pelle bianca e dotato di folta barba, ovvero gli Ainu
nel Giappone settentrionale. Ridotti negli ultimi secoli ad
occupare solo la gelida e poco ospitale isola di Hokkaido (ed in minor misura
anche le vicine Curili, Sachalin e Kamchatka), fino al medioevo si trovavano anche nell'isola
più grande dell'arcipelago nipponico - Honshu - dalla
quale vennero cacciati a forza dai samurai in una vera e propria operazione di
“pulizia etnica”. Oggi ridotti di numero ed anche
culturalmente in decadenza, conservano le tradizioni di un passato che deve
aver dato loro “giorni migliori”: è notizia recente ad esempio la scoperta che
numerosi gruppi etnici, in Ecuador ed in Perù, sono risultati geneticamente
imparentati proprio con gli Ainu, cosa che potrebbe
confermare quindi anche le testimonianze lasciateci dai primi spagnoli circa la
presenza di indios dalla pelle chiara negli ex domini Inca. Fra le usanze
conservate e ancora osservate dagli Ainu giapponesi
vi è quella della costruzione di ambienti circolari seminterrati nel suolo con
finalità religiosa e cerimoniale in memoria dei propri remoti antenati. Questi
ambienti circolari vengono nella loro lingua chiamati
“ki-va”.
Lo stesso identico nome veniva assegnato a costruzioni
assai simili da un misterioso popolo di pellerossa americani, agricoltore e
sedentario, esistito negli attuali Stati Uniti meridionali tra l'inizio
dell'era cristiana ed il XIV secolo per poi scomparire probabilmente a causa di
un grave disastro climatico: gli Anasazi. Già in un
precedente articolo si sono evidenziate le profonde conoscenze archeoastronomiche di queste genti che all'interno del Chaco Canyon (New Mexico)
riempirono i loro villaggi (poi denominati “Casas”)
di perfetti orientamenti con i solstizi, gli equinozi, le fasi della luna, e
via dicendo. Gli astri, le stagioni e l'armonia architettonica con il
calendario sembravano non avere segreti per loro che a Pueblo Bonito - la loro
capitale-santuario - Penasco Blanco,
Fajada Butte ed altre
località hanno lasciato pitture, graffiti, ed allineamenti architettonici dove
i raggi del sole e della luna formano ancora oggi giochi di luce dal preciso
significato astronomico in occasione dei solstizi, degli equinozi e delle varie
fasi lunari. Gli archeologi americani inoltre non sanno ancora oggi spiegarsi,
se non con ipotesi ancora vaghe, come abbiano potuto costruire strade di
centinaia di chilometri così perfettamente allineate lungo l'asse nord-sud che attualmente potrebbero essere realizzate soltanto con
l'ausilio del GPS satellitare ! La stessa bussola - che naturalmente non
potevano conoscere - indurrebbe infatti in errore a
causa dello scarto tra nord geografico e nord magnetico. Fino alla fine del
XIII secolo (quando contemporaneamente Dante e Marco Polo conducevano le loro
faticose peregrinazioni) la loro civiltà fu più o meno
florida, effettuavano periodiche processioni religiose, insieme ad una
sterminata moltitudine di pellegrini, sui loro chilometrici “assi stradali”, e
all'interno dei loro “kivas” circolari - come
dimostrato dagli archeologi - praticavano anche il cannibalismo rituale in
omaggio a chissà quale divinità. Finchè nella prima
metà del XIV secolo - mentre in Europa il clima diventava gelido e piovoso, e
con gravi carestie predisponeva all'arrivo delle tremende epidemie di peste,
dal 1347 in poi - anche gli Anasazi cominciarono ad essere colpiti da gravi carestie, a causa però di una
prolungata siccità, come dimostrato dalla dendrocronologia: scienza questa -
riguardante l'analisi degli anelli all'interno degli alberi ai fini delle
datazioni archeologiche - nata e perfezionatasi a partire dal 1929 proprio per
cercare di trovare risposte ai misteri di questo popolo di pellerossa. Da
agricoltori e sedentari allora abbandonarono la propria amata capitale, Pueblo
Bonito, e si spostarono tra nord e sud, sempre in perfetta linea retta,
fondando almeno altre tre città: Aztec Ruins, Salomon Ruins e Casas Grandes, tutte
perfettamente allineate sia con l'asse nord-sud, sia con l'ormai deserta Pueblo
Bonito, nel Chaco Canyon, lungo l'attuale meridiano 108 (107,57 per la
precisione), prima di scomparire, forse dispersi e assorbiti da altre
popolazioni di pellerossa.
Se ancora oggi per gli studiosi americani è un'ardua impresa riuscire a capire
mediante quale sistema e quali strumenti siano riusciti a mantenere un
allineamento così perfetto tanto nella costruzione delle loro strade, quanto
nella loro estrema peregrinazione, un enigma ancora più impenetrabile sembra
essere costituito dal significato di questo ossessivo
allineamento: perchè mai era indispensabile per loro
tanta precisione ?
Si possono fare tante ipotesi, naturalmente, anche le
più fantasiose. Prendiamone in considerazione una che potrebbe portare a
“quadrare” tanti elementi, in primo luogo sotto il punto di vista strettamente
geografico. Se si segue idealmente su di un mappamondo
il meridiano 108 verso sud vediamo che superata la città più meridionale
costruita negli ultimi tempi dagli Anasazi - Casas Grandes attualmente in
territorio messicano - ci inoltreremo nel Golfo di California, poi nell'Oceano
Pacifico e dopo aver superato l'isoletta di Clipperton,
giungeremo dopo molte migliaia di chilometri in prossimità della costa orientale
di un'altra località tradizionalmente associata a misteri archeologici e remote
civiltà perdute: l'Isola di
Pasqua (Eastern Island). Anche
quest'isola è piena di storie relative a sovrani e tribù
di uomini bianchi e barbuti, di antichi resti archeologici (a parte le
famosissime statue di “Mohai”, in realtà piuttosto
recenti) relativi a mura molto simili a quelle esistenti in Perù, come la
fortezza di “Sacsahuaman”, e che sembrano ricondurre
ad un remoto passato preistorico, ad una civiltà esistente molti millenni prima
dell'era cristiana. E poi vi sono gli ultimi esemplari superstiti delle
cosiddette “tavolette parlanti”, tavole di legno incise con caratteri praticamente indecifrabili, anche perchè
i pochi indigeni che ne conoscevano il significato furono anzitempo eliminati
dalle malattie e dalle sofferenze arrecate entrambe dai “civili” europei. A
quanto pare tuttavia intorno al 1860 il vescovo di Tahiti, un certo Jaussen,
che aveva preso a cuore le sorti dei poveri indigeni pasquensi
ripetutamente ridotti in schiavitù, riuscì forse a trovarne la chiave di
decifrazione, dopo essere entrato in confidenza con qualcuno di quei disperati
deportati anche sulla sua isola. Le sue conclusioni vennero
riscoperte solo una novantina d'anni dopo dall'antropologo tedesco Thomas Barthel
che dopo aver girato diversi monasteri della congregazione a cui era
appartenuto il vescovo ottocentesco, riuscì a recuperare intorno al 1953 tutti
i documenti in questione. Secondo l'interpretazione dell'ecclesiastico di
Tahiti le tavolette pasquensi ripercorrerebbero la
storia dell'arrivo dei primi indigeni dall'Isola di Rangitea o Raiatea - proprio
nell'arcipelago delle Isole della Società alle quali appartiene anche Tahiti -
nel XIII secolo della nostra era. Già nel secolo successivo avrebbero poi
iniziato a costruire le prime statue di pietra in onore dei propri antenati.
Circa le tavolette tuttavia più d'uno studioso ha
fatto notare la curiosa somiglianza di molti caratteri pittografici della loro
scrittura con quelli ritrovati letteralmente all'altro capo del mondo (cioè
proprio agli antipodi dell'Isola di Pasqua), fra le rovine delle antiche e
misteriose città della Valle dell'Indo. Stiamo parlando in primo luogo di Mohenjo-Daro
e Harappa,
le due prime città dissepolte a partire dagli anni
Venti del secolo scorso, ma anche quelle successivamente scoperte più ad est,
nei pressi del letto asciutto del fiume Sarasvati, che fino
al 2000 a. C. (o giù di lì) scorreva parallelamente all'Indo: Kot-Diji, Chanhu-Daro, Ganwariwala, e numerose altre. I documenti scritti di
questa civiltà sarebbero stati faticosamente decifrati almeno in parte tramite
un paziente confronto con i caratteri e i vocaboli dei dialetti locali
pakistani e indiani ancora parlati, rivelando più che altro aspetti di vita quotidiana
(atti di proprietà, transazioni commerciali, ecc.). Ma i resti delle città
dell'Indo hanno destato sin dalla loro scoperta grande meraviglia anche presso
gli stessi archeologi, per l'elevata qualità delle costruzioni murarie, la
razionalità urbanistica (con le loro lunghe vie perfettamente dritte) e certe sofisticate innovazioni come ad esempio un efficiente
sistema fognario, che vennero introdotte nel nostro mondo solo a partire dal
XIX secolo. C'è chi vede appunto anche in tali soluzioni architettoniche
l'eredità di una precedente e più antica civiltà che abbracciava gran parte
dell'Asia e dell'Oceania, e le cui rovine si
troverebbero ancora adesso diffuse in una vastissima area ed anche sul fondo
dei mari e degli oceani. Ed in merito ad affermazioni come
queste, in fatto di rovine misteriose ed anche sommerse, tra Asia ed Oceania, in realtà non vi è che l'imbarazzo della scelta:
vi sono città in fondo al mare nel Golfo di Cambay in
India; una presunta piramide sui fondali di Yonaguni, nei pressi
di Okinawa (tutte risalenti perlomeno al 7000 a. C., un'epoca col livello del
mare più basso); e poi due enormi colonne, sormontate da un arco pesante
qualcosa come 170 tonnellate, nell'atollo corallino di Tonga-Tabu; altre
piramidi nelle isole di Guam, di Kingsmill e
dell'isola Swallow; mura ciclopiche nelle isole di Lelu Kosrae
e nell'Arcipelago delle Samoa; colonne di marmo rosso, a forma di tronco di
piramide, nelle Marianne; ruderi sulla collina di Kuki nelle Hawaii;
fortezze ciclopiche sulle montagne dell'Isola di Rapa nelle Cubai; un monolite
di 40 tonnellate dalle incomprensibili iscrizioni sull'isola Manua Levu
nelle Figi; megaliti di forma piramidale (a Tinian), grandi
piattaforme (a Navigator,
a Palau),
massi da cinque tonnellate (a Babel-Daop) che portano
scolpiti volti simili a quelli dell'isola di Pasqua; e soprattutto le grandiose
rovine di Nag Madol
sull'isola di Ponhpei,
nell'arcipelago delle Caroline. Tutti reperti che possono effettivamente
parlarci di civiltà - una o più ? - che dovettero fiorire già parecchie
migliaia di anni fa, con la loro sofisticata e
raffinata architettura orientaleggiante diffusa in tutto il Pacifico fino alle
sponde americane, per poi andare in rovina sotto l'effetto dell'innalzamento
dei mari o di altre ignote catastrofi (immani eruzioni vulcaniche ? Caduta di
meteoriti ?).
Proviamo ad azzardare delle conclusioni ? L'attuale
meridiano 108, con gli insediamenti Anasazi e l'isola
di Pasqua ai due estremi, e all'altro capo del mondo, il suo complementare
meridiano 72 passante per le città della Valle
dell'Indo, potevano forse rappresentare antichi limiti di demarcazione
geografica della sfera d'influenza di un'antica e potente civiltà governata da
uomini barbuti e dalla pelle chiara, i progenitori degli attuali Ainu ? Ed i pellerossa agricoltori
e sedentari di Pueblo Bonito ancora fino a 700 anni fa non può darsi che
fossero costretti, inconsapevolmente, da un'ancestrale tradizione diventata poi
religione, a curare ed a ripercorrere regolarmente quelle perfette strade forse
realizzate da altri prima di loro, e lungo le quali i loro lontani antenati al
servizio dei “signori Ainu bianchi” perlustravano il
“confine geografico” come brave guardie di frontiera dalle minacce dei
“selvaggi barbari dell'interno” (o di altre civiltà altrettanto potenti) ? In
mancanza di documenti scritti, tutte le ipotesi, anche le più suggestive e le più fantasiose, sono in realtà possibili. Di
sicuro, le antiche rovine spesso monumentali ed a
volte anche sommerse, ci si presentano come sparsi e frammentari tasselli di un
mosaico che ancora non lascia neppure intuire cosa rappresenti. Ma paradossalmente, proprio anche grazie a questa sua
incompletezza e incomprensibilità continua a suscitare la nostra affascinata
curiosità.
Bibliografia.
Peter Kolosimo - Terra senza tempo - Sugar Editore.
Giulio Magli - Misteri e scoperte dell'Archeoastronomia
- Newton Compton Editore.
Adriano Forgione - Giappone, America ed Asia Minore terre del Sol Levante - in: "Hera", n. 22, Ottobre 2001.
www.colorado.edu/Conferences/chaco/open.htm (uno dei siti più aggiornati e completi su
Chaco Canyon e sulle discussioni accademiche americane relative agli Anasazi).
www.voyager.rai.it (La scomparsa degli Anasazi).
www.calion.com/archeo/archeoi.htm
(I villaggi Anasazi).
www.zadig.it/ (I progenitori degli americani erano giapponesi)